Delitto imperfetto. 50 poesie sulla poesia e sui poeti

12,00

AUTORE: Beppe Costa
TITOLO: Delitto imperfetto
50 poesie sulla poesia e sui poeti

COLLANA: fuori collana
GENERE: poesia
PAGINE: pg.90
ANNO: ©2024 DI CARLO EDIZIONI
ISBN-13: 9791281566736
PREZZO: 12,00
DISPONIBILE FORMATO KINDLE AL LINK: https://amzn.eu/d/7ic0Bs8

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Descrizione

La sorella fortunata della follia

 Ugo Magnanti

 Delitto imperfetto, 50 poesie sulla poesia e sui poeti, raccoglie il meglio della produzione ‘metapoetica’ di Beppe Costa, proponendo inediti, e attingendo ai vari ‘capitoli’ di un’opera che ormai supera il mezzo secolo.

Questa scelta si è rivolta in particolare alla misura breve, in genere poco praticata da un autore “preso… dal bisogno di dire tutto”, dalla necessità di affrontare “un discorso ininterrotto che va da un capo all’altro della mente (e della realtà osservata), e che adotta un “verso appena sufficiente a contenere lo spazio interno del dire”, come ebbe a scrivere nel lontano 1989 il grande storico della letteratura Giacinto Spagnoletti nella prefazione a Impaginato per affetto, libro grazie a cui Costa vinse il Premio Alfonso Gatto 1990.

E in fondo tale scelta corrisponde, a distanza di molti anni e di molti libri, all’auspicio che nella stessa prefazione lo Spagnoletti faceva a Costa, vale a dire quello di poter finalmente “restringere lo spazio interno del dire”, per farlo suo sino in fondo, con pochi, essenziali dettagli”, isolando i frammenti di una materia poetica per certi aspetti intensa e vitale.

A questo punto ormai avanzato nel percorso poetico di Beppe Costa, un’operazione del genere è apparsa necessaria, anche perché in grado di oltrepassare con le sue sole forze, e nella sua virtuosa brevitas, l’ambito definito dal sottotitolo, cioè quello delle poesie ‘sulla poesia e sui poeti’, per evocare naturalmente l’intera materia toccata da Costa negli anni: d’altro canto, in tutto il pluridecennale lavoro dell’autore, a prescindere dall’argomento trattato, o dalla ‘forma’ assunta, che sia l’amore o l’ode civile, è sempre presente un interrogativo in continua tensione sulle ragioni della poesia, su una certa visione della realtà espressa ‘poeticamente’, per cui al di là del tema, ogni testo sembra comunque parlare della poesia, per affermarne la plausibilità, la fragile logica, l’orgoglio della sua marginalità, e persino della sua alienazione, in una società globale neoborghese, neocapitalista, neopositivista, in cui, ribaltando ciò che diceva il poeta romantico tedesco Clemens Brentano, vale sempre di più considerare la poesia come la sorella fortunata della follia, quando ovviamente è praticata totalmente, senza riserve, a volte con velleità ‘maniacali’, e senza preoccuparsi di avere a disposizione un ‘paracadute’: da poeta, insomma.

È ciò che Beppe Costa ha fatto per una vita, abbracciando fino a oggi la sua “malattia, profonda, incurabile, decisiva”, che lo porterà a vivere più a lungo possibile di poesia, e a morirne (più tardi possibile); cioè a “morire di cuore come ha vissuto”, potremmo dire richiamandoci a una sua vecchia dedica con citazione del poeta spagnolo Jesus Lopez Pacheco.

Appare dunque evidente come un profilo di questa natura possa anche attraversare gli esiti di una determinata scrittura, la tenuta immediata di una cifra poetica riferibile a una singola opera, come questa in discorso, poiché il tragitto del nostro poeta rimanda a un corpus che sconfina continuamente in una originale e generosa esperienza di vita, nella quale, per dirla con Carmelo Bene, non sempre è indispensabile “produrre capolavori”, quanto invece è indispensabile “essere dei capolavori”.

Questa massima sembra aver guidato la militanza poetica di Costa, spesso condivisa, insieme a una sincera amicizia, con poeti molto noti e molto anticonformisti, come Dario Bellezza, o l’americano Jack Hirschman, al quale in Delitto imperfetto è dedicata una poesia in cui possiamo vedere il volto di Beppe riflettersi come in uno specchio nel volto di Jack:

 

Jack scriviamo versi / a volte diventano poesia / spesso tentiamo solamente / senza batterci / per sopravvivere al dolore. // Hai attraversato Jack / parti dolenti di questa terra / dove c’era da battersi / ti sei battuto / per questo resta la poesia / e resti tu che sei poesia!

A partire dalla ‘storia’ di Costa, in Delitto imperfetto possiamo dunque riconoscere una scrittura ‘credibile’, non tanto per cosa dice, o per come la dice, quanto perché capace di custodire il valore, la forza, l’urgenza, di una lunga vicenda, spesso scomoda e dolorosa, ma sempre risolta con coerenza, passione, ironia.

Il punto è, come scrisse in una nota a un libro di Costa, Lia Levi, la scrittrice superstite dell’Olocausto, che si tratta non solo di un “poeta di parole scritte”, ma anche di un “poeta della vita”; di un autore che con il suo tenace autobiografismo è sempre riuscito, lo notava già nel 1996 Luce d’Eramo nella postfazione alla raccolta D’amore e d’altro, ad “assorbire contesto, situazioni e interlocutori in uno sguardo lirico dall’andamento narrativo”, traducendo in versi gli avvenimenti e le trasformazioni sociali presenti negli ambiti della cultura, della letteratura, del Paese in generale, e soprattutto nei grandi sentimenti umani, primo fra tutti l’amore.

Ma non sempre la sua attenzione si è rivolta ai massimi sistemi, nel suo obiettivo sono entrati anche fenomeni meno ragguardevoli, più inerenti alle debolezze umane che ad altro.

Particolarmente in materia di poesia, nel corso della sua attività Costa ha avuto modo, come pochi, di percepire e di ‘sperimentare’ le ‘atmosfere’ dei circoli poetici, dei gruppi letterari, delle comunità editoriali, operanti negli ultimi decenni a Roma, e non solo, e di ricavarne, come si può notare nel libro, gustosi campionari di fatua alterigia, di narcisistica boria: opponendovi, come e quando ha potuto, una poetica inclusiva, una lingua semplice, quella che “buca il ventre ai sensibili”, che per Costa è in sostanza l’espressione di sentimenti comuni e di una prossimità alla gente che di quella lingua fa uso.

Motivi, questi, sufficienti a lasciar cuocere nel brodo di un divertito sarcasmo i cosiddetti “poeti seri”, e a riporre nella scrittura qualche residua aspettativa di resistenza a una realtà spietata, o almeno di testimonianza, in una ostinata cura della bellezza, oltre l’isolamento snobistico di un’arte poetica alla portata di pochi.

Certo questa, e altre, non sono strade che Costa ha intrapreso senza dubbi, esitazioni, rimpianti, spesso assillato dalla consapevolezza di non poter cambiare con la scrittura poetica, o con i principi basilari di umanità e di razionalità che essa porta con sé, il corso di eventi immodificabili come le guerre (quelle vere, non quelle fra poeti), alle quali, in particolare quelle del Medio Oriente, la poesia dell’autore è stata sempre molto attenta:

Vale ancora / scrivere di immagini di sangue / senza poterne fermare / una sola goccia? // Può dirsi ancora umano / il mio diritto / a stare qui / soltanto a scrivere?

Eppure per Beppe Costa sembra non esservi nulla di più desolante dei ‘poeti che tacciono’, perché la poesia non deve rimanere separata dal mondo e dalle sue rovine, o non deve relegare le sue parole all’idillio, allo sfogo solipsistico, ma al contrario deve immergersi …nel dolore immenso / di un’umanità / in costante ferita.

Ma poi nemmeno questo è del tutto vero, perché la scrittura di tanti autori, e di Costa in particolare, presenta in sé una rilevanza etica anche quando non è mossa da una ispirazione esplicitamente civile, in quanto estensione di una identità che afferma in ogni caso una coscienza, una responsabilità, nei confronti dell’esistenza. Forse per questa ragione nelle poesie di Delitto imperfetto, il tono con cui l’autore si rivolge al lettore sembrerebbe indurre a una sorta di dissidio nei confronti del mondo, malgrado la bellezza e malgrado anche gli orrori che nel mondo si possono trovare; un dissidio che in fondo coincide con la disponibilità a lasciarsi attraversare da un segreto, quello che sempre la poesia custodisce, come diceva Giuseppe Ungaretti, e che oscuramente percepiamo dalla nostra parte.

Ma in tutto ciò la figura del poeta, anche quella del poeta non serio, difficilmente subisce la tentazione del mito, anzi, viene in genere, per quanto ancora possibile, riconsiderata, ridotta, a volte quasi screditata.

Insomma in questo libro Costa segue con la sua ironia, col suo senso del paradosso, la tradizione dei poeti che hanno perso l’aureola baudelairiana, né potrebbe essere altrimenti, rispetto alla irreversibile modernità contro cui il poeta, quasi un Chisciotte contro i mulini, si è sempre battuto, tentando di richiamare l’attenzione, come il più modesto degli imbonitori, su quelle cose essenziali che nella società attuale hanno subìto una sorta di anestesia, le cose più semplici, ad esempio la luna, vera e propria icona della poetica di Beppe Costa.

La crisi delle coscienze invischiate nel torpore quotidiano, crisi che l’autore vorrebbe provocare attraverso la poesia, con una ambizione ovviamente utopistica e illusoria, è comunque, anche se lontana dal verificarsi, una buona notizia per chi soffre il conformismo e gli affronti della lingua attuale, quella della comunicazione calata dall’alto, o rimestata dal basso; è comunque un antico tentativo di valore etico su cui si esercita per l’ennesima volta l’estro di un autore, in questo caso Costa, che considera la poesia,  anche in contraddizione col sé stesso di poco prima, come un’occasione capace di cambiare il mondo, testardamente, sordo a tutte le evidenze, e a ben vedere in un senso non troppo contrario alla opposta, famosa, ‘definizione’ di Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo).

E allora possono tornare alla mente le parole di una lettera scritta dalla poetessa spagnola Ernestina de Champourcin, la quale bruciava dello stesso fuoco per la poesia di cui brucia Beppe Costa:

 

Comprendi perché non posso sentire nulla senza poesia? Il suo veleno sottile, penetrante, mi ha falsificato tutti gli aspetti della vita. O forse me li ha rivelati nella loro pura verità?

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